Pagine dall’Archivio storico: una dura sentenza del ventennio fascista

Sei mesi e ventuno giorni di reclusione, lire seicento di multa, il pagamento delle spese processuali ed il risarcimento dei danni. Questa è la severa condanna inflitta nel primo dei tre gradi di giudizio, il 20 dicembre 1928, dal Tribunale di Campobasso al 33enne A. M. di Larino.

Era imputato, innanzitutto, di un delitto previsto e punito da una legge emanata appena tre anni prima (24 dicembre 1925) “per avere offeso il Capo del Governo S. E. Mussolini Benito”, in aggiunta ad altre due accuse e cioè l’offesa del decoro di un pubblico ufficiale e l’illecito possesso di “alcune piante di quercia” che sarebbero state recise dalla scarpata di una strada pubblica, senza il consenso dell’amministrazione che gestiva l’arteria.

Prima di andare oltre è opportuno precisare che il Tribunale di Larino, insieme a quello di Isernia e di tanti altri situati in centri non capoluoghi di provincia, vennero soppressi nel 1923 e poi gradatamente ripristinati negli anni Trenta. Per questa ragione, l’unico collegio giudicante, immediatamente superiore alla Pretura, competente sull’intero Molise per circa tre lustri, fu quello di Campobasso.

I fatti, risalenti al 9 aprile 1928, descritti in una relazione il giorno dopo e con una successiva dichiarazione resa al Pretore di Larino, possono riassumersi come segue. Un Cantoniere stradale trovandosi sul tratto della rotabile (statale n. 87) Larino-Casacalenda, notò il 33enne larinese con “un fascio di legna” appena collocato sul suo biroccino. Convinto che A. M. si fosse “impossessato degli alberelli di quercia esistenti a valle della scarpata stradale”, il giorno seguente lo invitò a fornirgli “le precise generalità” per la redazione del verbale. In quell’occasione A. M., secondo l’accusa, adirato, avrebbe pronunciato alcune frasi ingiuriose tra cui: “stupido […] chi ti ha messo sulla strada ed anche a Mussolini che ti mantiene […]”. Compiuta la relativa istruttoria, A. M. fu rinviato in giudizio per rispondere dei reati ascrittigli.

Dall’accurata descrizione prodotta dai giudici si rileva testualmente: “il Collegio […] non può con dolore non constatare come il M. che appunto per i suoi precedenti fascisti avrebbe dovuto sentire più degli altri il sacrosanto dovere di difendere e venerare addirittura il nome del Duce, si sia abbandonato a delle escandescenze e profanazioni certamente non perdonabili, villanamente commesse, con l’evidente intenzione di imprecare contro Colui che egli in quel momento riteneva mantenesse (il verbalizzante) al posto di cantoniere stradale”. Prima di andare oltre, ritengo doverosa una precisazione sulla fede politica dell’imputato che scaturisce non solo dalla personale conoscenza, dall’esame di tessere d’iscrizione (di fine anni Quaranta e primi anni Cinquanta) da lui possedute e relative ad un partito completamente opposto a quello fascista, ma soprattutto dalle tante informazioni raccolte nel tempo che testimoniavano dei suoi costanti sentimenti di opposizione al regime. Pertanto, quanto appena accennato, mi offre la certezza di affermare che quei “precedenti fascisti” attribuitigli costituivano elementi suggeriti dalla strategia difensiva.

Interessante la lettura della sentenza di primo grado, distinta per reati, che recita testualmente: “[…] non può non affermarsi la penale responsabilità dell’imputato […]. Al M., pertanto, che risulta di buoni precedenti penali, si stima giusto infliggere la pena di mesi sei di reclusione e lire cinquecento di multa per il delitto di cui alla lett. a della rubrica (l’offesa al Capo del Governo n. d. a.); un mese di reclusione e lire cento di multa per quello di cui alla lett. b (l’offesa al cantoniere, in quanto pubblico ufficiale n. d. a.); e giorni dodici pure di reclusione per quello di furto, onde procedendo a cumulo giuridico, si ha la pena complessiva di mesi sei e giorni ventuno di reclusione e lire seicento di multa”. Alla condanna si aggiunsero il pagamento delle spese processuali ed il “risarcimento dei danni verso la parte lesa”.

Il giudizio di secondo grado, tenutosi il 3 aprile 1929 presso l’11ª Sezione Penale della Corte d’Appello di Napoli, da cui dipendeva il Molise, a parziale riforma della sentenza del Tribunale di Campobasso, assolse A. M. dall’imputazione di furto e in concorso “di circostanze attenuanti”, per gli altri due reati, “l’oltraggio al Duce e a pubblico ufficiale”, gli ridusse “la pena a cinque mesi e dodici giorni di reclusione e lire 499 di multa”, in aggiunta, però, “alle ulteriori spese di giudizio”.

Rammento, per inciso, che una sede distaccata della Corte d’Appello di Napoli fu creata in Molise soltanto nella seconda metà degli anni Settanta e l’istituzione di quella autonoma, con giurisdizione sulle circoscrizioni dei Tribunali di Campobasso, Isernia e Larino, si ottenne poco meno di due lustri dopo e cioè a metà degli anni Ottanta, ovviamente del Novecento.

Tornando alle fasi processuali trattate, si ritenne necessario compiere un ultimo tentativo, ma con la sentenza definitiva emessa dalla Corte di Cassazione il 6 aprile 1930, fu rigettato il ricorso e di conseguenza si aggiunsero alle tante spese anche quelle del processo romano, con l’ulteriore condanna “a pagare all’erario la somma di L. 150”. Tuttavia, per effetto del R. D. del 1° gennaio 1930 n. 1, con declaratoria del 23 maggio successivo, si giunse alla sospensione “della reclusione e della multa alla condizione di non commettere altri delitti in 5 anni”.

Ritengo doveroso precisare che l’A. M. di cui sopra, tornato prematuramente alla Casa del Padre quando io avevo appena compiuto i dodici anni d’età, è, per l’appunto, (e reputo opportuno l’uso del presente), mio Padre.

Giuseppe Mammarella

Direttore dell’Archivio storico diocesano